Viaggio nel tempo alla riscoperta delle tappe più significative di una tecnologia che ha portato dalla stampa di testo in b/n a quella di foto ad alta risoluzione.
Di Alberto De Bernardi e Sergio Lorizio
La tecnologia di stampa inkjet è più datata di quanto comunemente si sia portati a pensare: la prima applicazione commerciale vide la luce nel 1951 per merito di Siemens, ma l’idea risale nientemeno che alla seconda metà del 1800, quando Lord Kelvin, fisico e ingegnere irlandese, depositò il primo brevetto sull’argomento nel 1867. Anche limitandosi a considerare i prodotti tecnologicamente più affini agli attuali, bisogna pur sempre risalire alla fine degli anni ‘70. Si parla quindi di oltre un trentennio d’evoluzione, un arco di tempo durante il quale, passo dopo passo, sono stati realizzati progressi eccezionali che hanno portato dalla produzione di qualche riga di testo in bianco e nero alla stampa di immagini fotografiche di altissima qualità . In quest’articolo vogliamo ripercorrere le tappe salienti di questa storia.
Dal processo continuo al drop on demand
Il primo processo di stampa inkjet storicamente individuato è quello “continuo”, in cui l’inchiostro veniva spinto da una pompa attraverso un ugello, senza interruzioni, e da qui era proiettato sulla superficie da stampare. A dispetto del nome, il flusso d’inchiostro che derivava da un tale processo non era, in effetti, continuo. Per un fenomeno fisico legato all’instabilità dei fluidi in moto, complesso da dimostrare matematicamente, ma che fa parte dell’esperienza quotidiana (si pensi a un qualsiasi irrigatore da giardino), l’inchiostro espulso tende inevitabilmente a frammentarsi in gocce di dimensioni sostanzialmente casuali. Un perfezionamento di questo processo prevede l’impiego, in prossimità dell’ugello, di un cristallo piezoelettrico che, vibrando a una frequenza opportuna, spezza il fluido a intervalli regolari, permettendo di ottenere gocce più omogenee. Le gocce d’inchiostro così create vengono poi caricate elettrostaticamente da due elettrodi affacciati, in modo tale da poter essere direzionate applicando un opportuno campo magnetico. Nonostante alcuni vantaggi, tra cui l’alta velocità e cadenza di produzione, che si traducono in un’elevata velocità di stampa, questa tecnologia non ha mai trovato applicazione nel settore delle stampanti domestiche. Dopo una sperimentazione iniziale, al contrario, è stata abbandonata a favore di un processo non continuo, o di drop on demand, capace di garantire sia un miglior controllo sul posizionamento delle gocce sia minori sprechi. Oggi la tecnologia continua sopravvive solo in alcune applicazioni industriali, ma merita una citazione perché contiene già molti degli elementi di una moderna stampante piezoelettrica.
Le strade si dividono
Per realizzare un processo drop on demand è necessario sostituire la pompa con un elemento capace di produrre una singola goccia d’inchiostro. Inizialmente, tutti i produttori si sono orientati verso l’uso di cristalli piezoelettrici. Questi, come noto, hanno la caratteristica di produrre una differenza di potenziale elettrica se deformati o, al contrario, di deformarsi se sottoposti a una differenza di potenziale. Tale principio è utilizzabile per ottenere lo scopo finale: l’ugello da cui fuoriesce l’inchiostro rappresenta la parte terminale di una micro-camera costantemente alimentata dal serbatoio principale. Dietro la microcamera è collocato l’elemento piezoelettrico che, percorso da corrente, si deforma, assumendo alternativamente forma concava e convessa. Nel primo caso, il movimento provoca un aumento della pressione nella microcamera che spinge l’inchiostro verso l’ugello; nel secondo caso, crea una depressione che consente al nuovo inchiostro di fluire, per capillarità , dalla cartuccia alla testina di stampa. L’utilizzo di un cristallo piezoelettrico, però, non è l’unico modo per ottenere il drop on demand. Lo ha scoperto per caso un ingegnere di Canon durante alcuni test di laboratorio. Appoggiando inavvertitamente la punta di un saldatore all’ago di una siringa piena d’inchiostro, il tecnico notò come il repentino riscaldamento dell’ago bastò a provocarne uno spruzzo del liquido dalla siringa. Da questo fortunato incidente è derivata la tecnologia a getto termico d’inchiostro, alternativa alla piezoelettrica, e il relativo brevetto depositato da Canon nell’ottobre del 1977.
Facendo riferimento all’illustrazione qui sopra, si può vedere come l’elemento piezoelettrico sia stato sostituito in questo caso da un elemento riscaldante che, percorso da corrente elettrica, provoca la repentina evaporazione dell’inchiostro a contatto e la conseguente formazione di una bolla. Proprio da questo fenomeno deriva il nome bubble-jet attribuito da Canon a questa tecnologia. Analogamente alla deformazione meccanica del cristallo piezoelettrico, la bolla aumenta fortemente la pressione all’interno della microcamera, spingendo l’inchiostro verso l’ugello e, quindi, sul supporto da stampare. I primi dispositivi che sfruttavano questo principio sono stati brevettati, quasi contemporaneamente, da Canon e HP nel 1979, ma è spettato a quest’ultima il primato di commercializzazione, nel 1984, della prima stampante a getto termico d’inchiostro, battezzata ThinkJet (contrazione di thermal inkjet).
Negli anni successivi, questi due produttori sono stati i principali fautori della maturazione della tecnologia termica, attualmente adottata anche da Lexmark, mentre la tecnologia piezoelettrica è rimasta appannaggio di Epson.
(Estratto dall’articolo pubblicato sul numero 234 – settembre 2010)