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Google ti conosce, anche se lo eviti

| 11 Settembre 2014

Gran parte degli introiti di Google deriva dalla pubblicità ; per garantire una migliore qualità  e rilevanza degli annunci, l’azienda analizza […]

occhioGran parte degli introiti di Google deriva dalla pubblicità ; per garantire una migliore qualità  e rilevanza degli annunci, l’azienda analizza e archivia il comportamento dei suoi utenti. Naturalmente, Google è soltanto uno degli attori in scena: molti dei servizi disponibili su Internet raccolgono informazioni sulle abitudini, sulle azioni e sui dati dei loro clienti.

Queste attività  possono causare un brivido d’inquietudine quando memorizzano informazioni sulla navigazione, come chiavi di ricerca, pagine visitate e così via, ma l’intrusione si fa molto più evidente quando l’oggetto dell’analisi è la posta elettronica, come nel caso di Gmail. I termini della licenza di Google, modificati qualche mese fa, affermano chiaramente che i messaggi email possono essere analizzati per fornire pubblicità  mirate, e anche per ragioni legate alla sicurezza; ma una licenza d’uso può contraddire la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8) o l’articolo 15 della Costituzione Italiana? Il problema è molto serio, perché non ci si può proteggere dall’intrusione nella sfera privata: lo ha dimostrato in modo evidente – e inquietante – in un suo articolo l’attivista e ricercatore Benjamin Mako Hill.

Hill utilizza da oltre 15 anni un server di posta privato, e ha analizzato le mail inviate e ricevute dall’aprile 2004 (data di nascita di Gmail), partendo dall’assunto che tutte le missive scambiate con utenti Gmail sono comunque passate dall’archivio di Google. I risultati lasciano poche speranze: nonostante l’impegno e i costi necessari per mantenere attivo un server email privato, oltre un terzo della corrispondenza ricevuta da Hill e metà  di quella inviata è comunque stata analizzata dagli algoritmi di Google. Anche chi fa tutto il possibile per tutelare la sua privacy, quindi, rimane impigliato nella rete dei grandi fornitori di servizi, a meno di condannarsi a una sorta di eremitaggio digitale.

Dario Orlandi