A Genova, un giudice ha condannato – nei giorni scorsi – 21 utenti che, su Facebook, avevano espresso i loro commenti in relazione ad una notizia infondata che riguardava dei rom: queste persone sono state ritenute responsabili di istigazione al razzismo, una decisione che accende nuovamente i riflettori sulla questione delle conseguenze relative ai commenti condivisi sul web.
La falsa notizia – generata ad arte per sfruttare il fenomeno del clickbait – riguardava un ipotetico rapimento di un bambino, da parte di una donna nomade, all’interno del Parco Acquasola: le 21 persone condannate, tutte residenti in località differenti e completamente sconosciute l’una all’altra, sono state identificate e quindi condannate dal giudice Claudio Siclari.
In tanti casi, è verosimile che le persone condannate possano appellare la sentenza per incompetenza territoriale, tuttavia, è interessante notare come la magistratura italiana – dopo il caso Tavecchio – abbia decisamente cambiato approccio alla problematica dell’hate speech nel mondo del web, senza tuttavia aver interpellato in alcun modo FB nella vicenda.
Da una parte, certamente, ogni utente dovrebbe rendersi conto di come esprimere certi commenti ingiuriosi sui social network sia una condotta che rientra in una fattispecie precisa, esattamente come se le stesse parole fossero pronunciate di persona in un luogo pubblico: ma dall’altra, bisognerebbe anche evitare tutte le derive di uno zelo eccessivo nel reprimere casistiche minori.