Riassunto delle puntate precedenti: qualche tempo fa alcuni operatori telefonici hanno cambiato i termini di fatturazione riducendo la durata da trenta a ventotto giorni. Questo ha significato, in pratica, aggiungere una “tredicesima” a carico degli utenti ai quali è stata, di fatto, aumentata la tariffa per oltre l’otto per cento. La scelta ha suscitato proteste generalizzate al punto che lo scorso marzo 2017 l’Autorità per le comunicazioni ha emanato la delibera 121/17/CONS con la quale imponeva di cessare questa pratica e, nel silenzio dei diretti interessati, il 14 settembre ha annunciato l’avvio di un procedimento per sanzionare gli operatori inadempienti. Dal canto suo, Asstel, l’associazione di categoria degli operatori, ha denunciato l’assenza di basi giuridiche nel comportamento dell’Agcom e ha annunciato l’intenzione di contrastare la delibera e il procedimento sanzionatorio che su di essa si basa.
La questione è particolarmente complessa perché coinvolge parecchi tecnicismi legali, ma può essere sintetizzata in questi termini: Agcom ha torto e Asstel ha ragione perché le condizioni di fatturazione sono una scelta contrattuale rimessa alla libera volontà delle parti garantita dal Codice civile. E l’Agcom non ha il potere, e dunque il diritto, di modificare una legge dello Stato come è, appunto, il Codice civile), con un provvedimento amministrativo di rango grandemente inferiore. Se proprio si volesse contestare il comportamento degli operatori, rileverebbe semmai il potenziale – ma indimostrato e dunque insussistente – “cartello” che si potrebbe ipotizzare a monte della scelta comune di aumentare i costi per gli utenti. Ma questa sarebbe una valutazione di competenza dell’Antitrust e non dell’Autorità per le comunicazioni. Oppure si potrebbe contestare l’abuso della posizione di forza nei confronti del contraente debole e dunque la nullità della pattuizione contrattuale. Ma in questo caso bisognerebbe rivolgersi al giudice.
Al limite, si potrebbe addirittura configurare una ingannevolezza pubblicitaria dei messaggi che promettono tariffe «per sempre» che poi invece cambiano a danno degli utenti e dovrebbe essere coinvolto il Giurì dell’autodisciplina pubblicitaria. Ma allora perché l’Agcom si sta comportando in questo modo? La risposta è nella lotta (non dichiarata, ma inevitabile) in corso per il controllo regolamentare sull’internet e sulle TLC che, in un tutti contro tutti alimentato dall’inerzia parlamentare, ha come protagonisti oltre all’Agcom, anche, appunto, l’Antitrust e l’Autorità per la protezione dei dati personali.
In un settore dove il perimetro di ciascuna autorità è tutt’altro che chiaro, ciascuna cerca di estenderlo fino a quando qualcun altro non reagisce, contribuendo a rendere ancora più confuso lo scenario. Questo spiega perché l’Autorità non sia nuova a interventismi giuridici che si sono tradotti, nel corso del tempo, nell’adozione di provvedimenti fuori dalla sua giurisdizione ma che sono passati lo stesso. È il caso, per esempio, del famigerato regolamento sulla protezione del diritto d’autore, con il quale l’Agcom si autoattribuita il potere di sostituirsi al giudice penale in materia di reati a danno del diritto d’autore.
Se, tuttavia, gli operatori hanno dunque ragione a lamentarsi di quello che sta accadendo in materia di fatturazione e il loro richiamo alla libertà contrattuale è tecnicamente corretto, dovrebbero anche farsi un esame di coscienza e chiedersi dov’erano quando, in altre occasioni, l’Agcom è uscita fuori dal proprio perimetro. Rinunciando al loro ruolo di watchdog, le imprese del settore TLC hanno contribuito a rendere possibile quello stato di fatto che ora contestano. Ed è inutile piangere sul latte versato.