I servizi di cloud storage hanno conquistato il mercato grazie alla loro utilità e all’estrema semplicità d’uso: sono la soluzione di gran lunga più semplice per condividere i documenti e i file tra più dispositivi, magari di tipo diverso (computer, smartphone, tablet e così via). Ma il cloud storage tradizionale ha limitazioni piuttosto significative, che ne diminuiscono l’utilità se la quantità di dati da sincronizzare supera una certa soglia, oppure se la qualità della connessione a Internet non è sufficiente. Da alcuni anni esistono però soluzioni alternative, di cui la più nota è OwnCloud: un software da installare su un computer locale, con un’infrastruttura di sincronizzazione e memorizzazione remota analoga a quella di un servizio di cloud storage tradizionale, con tutti i vantaggi ma senza i difetti. Partendo da questa base i suoi sviluppatori hanno costruito un software flessibile e modulare, basato su standard aperti, che può essere esteso per gestire anche calendari, contatti e impegni, e integrato con altri strumenti, come quelli presenti nell’infrastruttura di molte aziende.
di Dario Orlandi
Il panorama del settore dell’information technology è cambiato molto rispetto a dieci anni fa: il numero dei dispositivi per utente è cresciuto, tanto da rendere più complessa e delicata la gestione dei documenti e degli altri file. Se in passato bastava salvare i file sul computer locale, e soltanto le aziende disponevano di server per centralizzarne la memorizzazione e condividerli tra più utenti e computer, oggi invece anche i privati si trovano a confrontarsi con i problemi legati alla dispersione delle informazioni; file salvati sul computer di casa o sul notebook utilizzato per lavoro, fotografie scattate con lo smartphone e film da vedere con il tablet: tutti questi dati dovrebbero poter essere accessibili da qualsiasi dispositivo, preferibilmente in modo semplice e automatico. La soluzione più comune per queste esigenze è rappresentata dai servizi di cloud storage, come Dropbox o OneDrive, che hanno proposto una ricetta intuitiva, utilizzabile anche dagli utenti meno esperti: il contenuto di una specifica cartella viene sincronizzato con i server remoti, e da lì gli aggiornamenti vengono distribuiti a tutti gli altri dispositivi collegati allo stesso account. In una prima fase questo meccanismo non era patrimonio comune di tutti i servizi, ma la sua semplicità ne ha favorito l’adozione, tanto che oggi è difficile anche solo pensare a un’impostazione diversa. Al massimo si può decidere di non sincronizzare alcune delle cartelle remote con il file system locale: un sistema tutto sommato semplice per separare i dati personali da quelli lavorativi, oppure per evitare il download di troppe informazioni su dispositivi che hanno limiti stringenti di storage, come per esempio i computer ibridi.
I limiti del cloud storage tradizionale
Come spesso accade, però, anche le tecnologie di maggiore successo hanno qualche difetto che può risultare fastidioso, o addirittura inaccettabile, per determinate categorie di utenti. Uno dei maggiori problemi dei servizi di cloud storage tradizionali è legato alla qualità della connessione a Internet: se la velocità di upload è scadente, infatti, il tempo necessario per sincronizzare i file più voluminosi può essere così elevato da rendere poco pratico l’uso del servizio. Per essere efficace, infatti, il cloud storage dev’essere quasi istantaneo: quando si salva e si chiude un documento, la modifica dev’essere propagata al server locale entro pochi secondi, prima che l’utente decida di spegnere o mettere in stand-by il computer. Se questo non avviene, ad esempio perché l’upload della nuova versione non è stata ancora completata, l’utilità del cloud storage è compromessa: sui vari dispositivi si troveranno infatti versioni diverse dello stesso file, uno scenario da incubo che il cloud storage dovrebbe invece contribuire a scongiurare. Anche se la connessione non dovesse essere disastrosa, la velocità di trasferimento in upload può diventare un limite al crescere della quantità di dati da trasferire: se non è un problema sincronizzare un documento di Word o una tabella di Excel, usare un servizio di cloud storage per memorizzare un progetto video, magari ad alta o altissima risoluzione, può essere complicato. Inoltre, questi servizi sono offerti con una formula freemium che limita lo spazio disponibile per chi non vuole pagare un abbonamento. La capienza varia da un servizio all’altro, ma in media oscilla attorno ai 10-15 Gbyte: uno spazio sufficiente per memorizzare i documenti di Office, ma piuttosto scarso per chi vuole invece salvare anche immagini, video, software o informazioni di backup.
Se da un lato si può ampliare lo spazio disponibile sottoscrivendo un abbonamento, dall’altro i costi non sono trascurabili per chi, specialmente in ambito aziendale, vuole poter memorizzare molti dati: uno spazio di storage di 10 Tbyte, per esempio, costa ben 100 dollari Usa al mese con Google Drive, uno dei pochi servizi a offrire capacità così elevate. Se si vuole implementare un’infrastruttura basata sul cloud per un ufficio o un’intera azienda, i costi possono crescere rapidamente. Oltre a spazio, velocità e costi, esiste poi un quarto fattore cruciale: non tutti accettano di affidare i loro file a servizi di terze parti, sulla cui sicurezza e onestà si può soltanto fare un atto di fede. Gli attacchi ai cloud storage non hanno avuto fino a oggi effetti disastrosi come è avvenuto in altri casi, ma la loro storia non è neppure del tutto priva di ombre. Le aziende che lavorano con la proprietà intellettuale, oppure quelle che trattano informazioni sensibili dei loro utenti o clienti, spesso sono restie ad appoggiarsi a servizi di terze parti perché non hanno il completo controllo sugli accessi e sulla protezione dei dati a riposo. (…)