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Editoriale

Il “caso” Brave e i software gratuiti: se non lo paghi, il prodotto sei tu?

Dario Orlandi | 30 Luglio 2020

Il “caso” Brave evidenzia ancora una volta che la ricerca di fonti di guadagno per lo sviluppo dei software gratuiti è un problema serio, che non può essere affrontato in maniera ideologica.

Il mese scorso, il browser Web gratuito Brave è finito nell’occhio del ciclone quando alcuni suoi utenti hanno notato che gli Url relativi a servizi di intermediazione per la compravendita di criptovalute venivano modificati automaticamente quando digitati nella barra dell’indirizzo, aggiungendo un codice referral che permetteva all’azienda produttrice di Brave di guadagnare una piccola percentuale.

Gli sviluppatori in un primo tempo si sono difesi sostenendo che si trattasse di un eccesso di zelo da parte dell’algoritmo di completamento automatico degli indirizzi, ma in un secondo tempo hanno ammesso l’errore e hanno modificato il software disattivando la funzione. Il comportamento di Brave, che modificava l’input dell’utente senza fornire alcun avviso, è sicuramente grave, e lo è specialmente per un software che si definisce “Secure, Fast & Private”; ma la ricerca di fonti di guadagno per lo sviluppo dei software gratuiti è un problema serio, che non può essere affrontato in maniera ideologica.

Gratis, ma a che prezzo?

Nel settore dell’informatica la disponibilità di software gratuito è una tradizione pluridecennale. La narrativa dello sviluppatore solitario che crea un programma per risolvere un suo problema e poi lo rende disponibile per chiunque abbia esigenze simili può forse ancora reggere per qualche tool specialistico. Ma la quantità di lavoro necessario per garantire la qualità, la compatibilità e l’affidabilità di un software, che si tratti di un’app per smartphone o di un intero sistema operativo, difficilmente può essere garantita da un singolo sviluppatore che lavora alla sua creazione nei ritagli di tempo, a prescindere dal suo talento.

Come si concilia questa considerazione con la proliferazione di strumenti e servizi disponibili gratuitamente? Una strada, percorsa con successo da moltissimi progetti, è quella della community, in cui molti sviluppatori si aggregano dedicando ciascuno una piccola parte del suo tempo alla creazione, all’evoluzione o alla manutenzione di un progetto. Questa impostazione ha indubbiamente dimostrato la sua efficacia, ma nasconde molte insidie: i dissidi personali o le differenze di visione sulla strada da intraprendere possono causare fratture e scissioni tali da determinare la morte di un progetto altrimenti promettente.

L’ombra delle aziende

Inoltre, molti progetti open source gestiti da una community possono contare su programmatori a tempo pieno, stipendiati da aziende che utilizzano questi progetti come base per il loro business. Il contributo di queste figure può arrivare ad avere un peso determinante, e quindi le aziende che li pagano possono controllare o per lo meno influenzare la direzione dello sviluppo.

Ma cosa succede, invece, quando il prodotto è sviluppato da una software house tradizionale? Creare e mantenere in vita un’azienda ha costi significativi e, anche riducendo le spese al minimo, è difficile pensare di lavorare senza introiti: c’è quindi chi scommette sulle sue idee e realizza un prodotto o un servizio in perdita, nella speranza di attirare le attenzioni di qualche grande azienda e farsi acquisire, ma nella maggior parte dei casi dietro a un programma gratuito c’è un’altra strategia per ottenere i ricavi necessari alla sopravvivenza del progetto e dell’azienda che lo sviluppa.

Spesso, però, manca la trasparenza: in che modo guadagnano gli sviluppatori di un software o un servizio gratuito? Chi garantisce che le rassicurazioni di un’azienda corrispondano alla realtà?