Tra le tante conferenze stampa del Mobile World Congress vale la pena citare quella organizzata dal 5G PPP (5G Public Private Partnership). È un consorzio creato l’anno scorso con l’obiettivo di unire le forze tra governi e aziende per definire gli standard e accelerare lo sviluppo delle reti cellulari di quinta generazione. Del gruppo fanno parte aziende del calibro di Alcatel-Lucent, Ericsson, Intel, Nokia; tra i carrier telefonici vi sono Orange, France Telecom e la nostra Telecom Italia. Uno dei messaggi lanciati è che questa volta il vecchio continente non vuole perdere il treno dell’innovazione, come successo nel caso del 4G che ha visto in vantaggio i Paesi orientali come Cina e Corea del Sud. La cinese Huawei, la cui divisione europea tra l’altro fa parte del 5G PPP, ha intenzione di investire da sola 600 milioni di dollari da qui al 2018. Le prime implementazioni della tecnologia 5G, che sarà in grado di offrire una velocità di trasferimento dati intorno ai 10 gigabit al secondo, sono previste nel 2020. Dibattere oggi di reti 5G potrebbe sembrare quantomeno prematuro, specie nel momento in cui in Italia si è agli inizi con la diffusione delle reti 4G, offerte tra l’altro a costi molto alti, o quando ci sono zone ancora del tutto sprovviste di copertura 3G (per non parlare dell’Adsl). Bisogna tener conto che siamo alle porte di un’importante rivoluzione informatica, meglio nota come Internet delle cose. Il traffico dati e il numero dei dispositivi connessi sta salendo in modo esponenziale (Cisco prevede un aumento di 11 volte del volume di traffico attuale entro 4 anni) ed è in gioco la sopravvivenza stessa del Web come lo conosciamo. Connettere insieme miliardi di dispositivi, dagli orologi alle automobili, dai frigoriferi ai televisori, è una sfida che non ammette ritardi ed è opportuno giocare d’anticipo quanto più possibile.
Pasquale Bruno