di Dario Orlandi
L’affermazione dei servizi Web come alternativa ai software tradizionali è ormai un dato di fatto: sono sempre più numerose le attività per cui è sufficiente un browser e una connessione a Internet, senza dover scaricare o acquistare, installare e utilizzare software dedicato. Google ha addirittura immaginato e tentato di realizzare un sistema operativo completamente basato sui servizi Web, Chrome OS: il progetto non ha avuto un successo folgorante, ma ha mostrato che anche rinunciando ai programmi tradizionali si possono comunque svolgere senza troppe limitazioni tutti i compiti più comuni. Il passaggio dal software al Web nasconde però un’insidia che si è manifestata in tutta la sua evidenza negli ultimi mesi, quando Google ha annunciato e poi messo in pratica il proposito di chiudere alcuni dei suoi servizi. Il gigante di Mountain View non è nuovo a queste operazioni di razionalizzazione, ma finora aveva tagliato servizi che non avevano avuto un riscontro significativo. Il primo luglio scorso, invece, Google ha chiuso Reader, un apprezzatissimo aggregatore di news disponibile fin dal 2005, e il primo novembre andrà in pensione anche iGoogle, la home page personalizzata. Naturalmente, Google può decidere come meglio crede sulla sorte dei suoi prodotti, che vengono offerti gratis senza alcuna garanzia di continuità del servizio, ma queste ultime scelte sembrano aver incrinato il rapporto di fiducia tra l’azienda e i suoi utenti: lo scorso marzo, quando Google ha lanciato il servizio di annotazione Keep, molti commentatori evidenziavano il rischio di trovarsi, nel giro di qualche anno, a dover cercare un’alternativa. Ma questi casi sono solo la punta dell’iceberg: a causa della crisi degli ultimi anni e delle acquisizioni, che sono una costante nella storia dell’industria IT, moltissimi servizi – anche di successo – chiudono i battenti, spesso con un preavviso molto inferiore rispetto a quello garantito da Google. In primo luogo è difficile trasformare un’idea efficace in un business redditizio, e quindi sostenibile nel lungo periodo; quando ci si riesce, poi, si diventa appetibili per le grandi aziende, che spesso si muovono con logiche e obiettivi totalmente diversi. Bisogna dunque rassegnarsi alla precarietà ? Probabilmente sì. Un ecosistema basato sui servizi Web è strutturalmente più debole rispetto all’ambiente software tradizionale: non basta che l’hardware funzioni, ma serve la collaborazione del provider e (quasi sempre) una connessione a Internet. Diventa quindi necessario rimanere sempre aggiornati e provare nuove alternative per non farsi cogliere impreparati. Ma soprattutto è importante verificare sempre che esista una strategia di uscita, una funzione che permetta di esportare le informazioni e le configurazioni personali, per poter passare facilmente da un servizio all’altro in caso di necessità .