Tra le pietre miliari della storia dell’Hi-Fi, il cui inizio risale per convenzione all’introduzione del disco Lp in vinile nel 1948, la “musica liquida” gode di un posto di prim’ordine poiché ha per molti versi rivoluzionato il settore ponendo le basi attuali e future della riproduzione audio. Se la paternità del termine resta incerta, va riconosciuto il merito di averla utilizzata per primo al fondatore della rivista specialistica Audio Review, Paolo Nuti, che si avvalse fin dal 2006 di quell’espressione destinata a essere sistematicamente adottata da audiofili e addetti ai lavori. In realtà , tuttavia, si potrebbe anticipare il reale sviluppo della musica liquida al 1993, l’anno di pubblicazione delle specifiche dell’Mpeg-1 Audio Layer III – meglio noto al grande pubblico come Mp3 – ovvero il codec di compressione che ha sostanzialmente decretato la nascita dei lettori digitali portatili e l’inevitabile pensionamento del classico Walkman a nastro.
di Marco Martinelli
La musica liquida rappresenta senza dubbio il futuro della fruizione dell’audio in ambito portatile e domestico: per questa ragione abbiamo deciso di affrontare l’argomento iniziando a descrivere i formati maggiormente utilizzati e i software più indicati per creare una collezione personale, dematerializzando dischi in vinile, nastri e Cd che la maggior parte di noi possiede in quantità più o meno rilevanti. Poiché il focus principale di questo articolo è incentrato sulla riproduzione sonora tra le mura di casa, ci siamo inoltre occupati dell’interfacciamento della sorgente – il computer in questo caso – con un normale impianto Hi-Fi attraverso l’utilizzo di convertitori esterni dedicati, senza trascurare di indicare le regole fondamentali per disporre al meglio la catena di riproduzione al fine di ottenere i risultati migliori in termini qualitativi d’ascolto.
I formati dell’audio digitale
Sono tre le macrocategorie di formati di file utilizzati per memorizzare e riprodurre musica digitale: formati non compressi, compressi senza perdita di informazione (lossless), e compressi con perdita (lossy). La sostanziale differenza tra le prime due tipologie riguarda la quantità di spazio occupato su disco, mentre per la terza si aggiungono fattori che impattano sulla qualità di riproduzione.
In estrema sintesi, i formati compressi lossless vengono creati ricercando ed eliminando le sequenze di dati identiche dal file di origine, inserendo pertanto una sola volta i bit ripetitivi nel file compresso insieme alle informazioni necessarie per la ricostruzione precisa dell’originale; questa tecnica non è particolarmente efficace sul piano della riduzione delle dimensioni dei file, ma in compenso garantisce la certezza della conservazione di tutti gli elementi iniziali.
Nella creazione di file lossy, al contrario, si sfruttano specifici algoritmi di compressione in grado di generare contenuti molto compatti ma di qualità inferiore rispetto all’originale, risultato ottenuto scartando le informazioni ritenute ridondanti o comunque poco influenti sul risultato complessivo. Il livello di compressione, e la resa finale di conseguenza, è regolabile dall’utente sulla base delle proprie necessità e aspettative, soprattutto in funzione della modalità di riproduzione e delle condizioni di ascolto. Appare chiaro come l’utilizzatore di un riproduttore audio portatile di media qualità – generalmente corredato di cuffiette di serie non particolarmente isolanti dai rumori ambientali esterni e poco performanti – difficilmente percepirà lo scadimento tra un file compresso e non, al contrario di un audiofilo dotato di impianto stereo di alto livello in grado di evidenziare in maniera drammatica ogni minima differenza con l’originale.
Gli algoritmi di compressione lossy eliminano l’informazione sonora ritenuta meno percepibile dall’ascoltatore basandosi su modelli psicoacustici di riferimento: il livello di compressione, e quindi di intervento “distruttivo” dell’informazione originale e di riduzione della dimensione dei file, può essere impostato dall’utente in maniera semplice intervenendo principalmente sul bit rate (espresso in kbps), ovvero sul numero di bit per secondo utilizzati per il flusso audio. L’intervallo del bit rate può essere molto ampio, ma ai fini di una riproduzione di qualità accettabile è preferibile non scendere al di sotto del valore di 256 kbps oppure optare direttamente per il massimo, 320 kbps. Fino a qualche anno fa lo standard era fissato a 128 kbps, una qualità oggigiorno ritenuta molto scarsa se non pressoché inaccettabile e un compromesso inutile dal momento che lo spazio su disco e in memoria non rappresenta più un problema come in passato.
Estratto dell’articolo pubblicato su PC Professionale numero 278