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Il Growth Hacking tra mito e realtà : sette domande sul Growth Hacking

Redazione | 22 Marzo 2016

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Il mercato del lavoro, pur in una stagnazione continua, genera allo stesso tempo opportunità  per chi riesce a coglierle. In […]

Il mercato del lavoro, pur in una stagnazione continua, genera allo stesso tempo opportunità  per chi riesce a coglierle. In particolare nel settore “digitale”, dove le nuove competenze hanno creato nuove opportunità . Tra queste, la figura più poliedrica del momento è quella del Growth Hacker. Un moderno stregone che riesce a miscelare tecnica e numeri per raggiungere obiettivi di business.

Abbiamo intervistato due dei maggiori esponenti del Growth Hacking italiano: Luca Barboni e Raffaele Gaito (autore di questa Guida al Growth Hacking) e abbiamo chiesto tutto su questa nuova figura professionale.

Buongiorno Luca, buongiorno Raffaele, iniziamo subito con una definizione più sintetica possibile di cosa è il Growth Hacking?

Luca Barboni: In sintesi? Il growth hacking è un insieme di strategie e processi mirati a scatenare una crescita esponenziale. Come avviene la “magia”? Grazie ad una combinazione tra l’avere per le mani un ottimo prodotto (non secondo nostra mamma, ma secondo i nostri reali clienti) e una distribuzione costantemente ottimizzata. Condire con un continuo testare nuove strategie, et voilà  : )

Raffaele Gaito: Come sempre capita in questi casi, in giro si trovano mille definizioni di Growth Hacking e ci sono già  le prime “scuole di pensiero” al riguardo.
Io ho una personalissima definizione, che uso soprattutto per farlo capire ai clienti che non ne hanno mai sentito parlare: “Il Growth Hacking è il focus assoluto sulla crescita, senza se e senza ma. È un mix di diverse discipline e diverse tecniche, spesso non convenzionali, che consentono di far crescere una o più metriche.

Ora provate a spiegarlo ad un Manager di una qualsiasi azienda, per fargli comprendere l’eventuale importanza di questa nuova figura professionale.

Raffaele Gaito: Caro Manager, dammi la metà  del budget che di solito spendi in marketing e ti faccio ottenere il doppio dei risultati.

Luca Barboni: Io prendo spesso esempio dalla celebre scena di “Wolf of Wall Street” in cui il protagonista chiede ad uno ad uno ai suoi interlocutori di vendergli la penna al meglio delle loro possibilità . La risposta giusta viene dal personaggio che riesce a far nascere il bisogno di una penna dimostrando l’importanza della demand generation. Il marketing ha vinto. La vendita avviene. Ma cosa succede se la penna poi non scrive? E se si spezza in due non appena cade per terra? Se scrive rosa invece di nero? Sicuramente non avremo di fronte un cliente soddisfatto. Il punto è che anche quando il marketing ha successo, può andare comunque tutto storto. E per quanto possiamo spendere budget colossali in pubblicità  non potremo mai comprare clienti entusiasti. E solo i clienti entusiasti scatenano un passaparola che si traduce in viralità  e crescita esponenziale. La morale è che la viralità  non sta nella campagna di comunicazione che si fa SUL prodotto. La viralità  va integrata NEL prodotto stesso. E se è vero che il ruolo del marketing è generare nuovi clienti, viceversa tutto ciò che genera nuovi clienti dovrebbe ricadere sotto il cappello del marketing. O meglio, della competenza ibrida del growth hacker. (Arrivati a questo punto gli invio il mio IBAN).

Come si diventa Growth Hacker? E perché lo hai scritto sul tuo profilo Linkedin?

Luca Barboni: Ho avuto la fortuna di scoprire il Growth Hacking mentre lavoravo al marketing per una startup IoT, Atooma. Il primo contenuto che ho letto sul tema è stato “The Definitive Guide to Growth Hacking” di Neil Patel (che consiglio a tutti di leggere!). L’elemento di questo mindset che mi ha subito colpito è stata l’immediatezza. Perchè se tutto è basato su dati, allora non si tratta altro che di applicare il metodo scientifico e di seguire una serie di passaggi logici. Onestamente a leggere alcuni libri sul tema c’è da sentirsi stupidi per non esserci arrivati da soli! Questa semplicità  e questa chiarezza nell’andare dal punto A al punto B mi ha conquistato sin dall’inizio. E sopratutto ha portato molto più ordine e una migliore performance durante la mia giornata tipo a lavoro sul marketing. Probabilmente la cosa più di valore che il growth hacking mi ha dato come professione è l’avermi (finalmente) conferito un sistema affidabile replicabile per ottenere risultati nel marketing. Il resto è tutta execution. Diciamo che da quel momento di epifania ho deciso di approfondire sempre di più fino a dedicarmi del tutto al growth hacking e offrire consulenza e formazione secondo questo mindset. Come si diventa Growth Hacker? Per prima cosa, studiandosi per filo e per segno il pensiero di Lean Startup. Sono convinto al 100% che senza questa corrente di pensiero il growth hacking non sarebbe mai potuto esistere. E ancora, talvolta il growth hacking viene proprio definito “Lean Marketing” perchè si aggancia perfettamente al ciclo di vita di un’azienda Lean ed è fedele ai suoi principi quando si occupa della fase di crescita. In secondo luogo consiglio di leggere contenuti specifici sul tema e di fare chiarezza su cos’è e cosa non è growth hacking. Come prima lettura che segnalo anche ai curiosi c’è senza dubbio “Growth Hacker Marketing” di Ryan Holiday. Infine l’unica cosa che rimane da fare è prendere la guida di un progetto, grande o piccolo che sia, e cominciare a testare testare testare e vedere dove si riesce ad arrivare mettendo in pratica quanto si è appreso.

Raffaele Gaito: C’è da dire che Growth Hacker è un po’ una “buzz word” di questi tempi. Un po’ come qualche anno fa lo era “gamification” e ancora prima “viral marketing”.
Come spesso succede per queste figure borderline, non esiste un riconoscimento ufficiale. Nessuno ti darà  mai la laurea in Growth Hacking.
Quasi sempre lo si diventa per esigenza. Con un passato da startupper mi sono trovato spesso nella situazione dove hai poco budget e tanta necessità  di crescere. A quel punto fai lavorare l’ingegno e tiri fuori soluzioni non convenzionali. Poi ho iniziato a farlo anche per altri ed è allora che qualcuno ha iniziato a darmi questa etichetta.

Esistono percorsi professionali che possono generare Growh Hacker, chiamiamoli “inconsapevoli”?

Luca Barboni: Sicuramente buon senso, pensiero diagonale e una sana cultura dei dati possono portare qualsiasi cervello sulla buona strada. Aver avuto esperienze imprenditoriali o aver lavorato in una startup permette di avere percezione da vicino di quali sono le sfide con cui ci si dovrà  confrontare. E’ sicuramente importante anche una competenza trasversale attraverso diverse discipline che spaziano dal Marketing al Design, principi di persuasione, sino allo sviluppo e l’analisi dei dati. Dove il marketer ha bisogno dell’apporto del designer e del web developer per mandare online una nuova landing page, il mito del growth hacker “ideale” (ovvero T-shaped) vuole che non si debba chiedere il permesso a nessun dipartimento e che si possa pianificare, disegnare e implementare in autonomia concentrandosi al 100% su testing e crescita.

Raffaele Gaito: L’esperienza che ho raccontato nella risposta precedente è comune a molti Growth Hacker che conosco. E infatti spesso si dice che questo tipo di tecnica/mindset è nato nel mondo startup ed è poi stato adottato anche da altre aziende.
Non so se esiste un percorso professionale che ti formi su questi aspetti, ma so per certo che quando sei piccolo e devi lottare con i grandi tiri fuori le idee più stravaganti e ti metti a provare di tutto fin quando non ottieni i risultati sperati. Quello è Growth Hacking!

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