Quello che sta succedendo in queste ore attorno alla vicenda del sito Wikileaks non ha forse precedenti nella storia di Internet ed è anche la testimonianza del conflitto in corso dentro al Web, ormai diviso in due anime. Da una parte le multinazionali di Internet, stile Amazon, Google,Visa, PayPal e Facebook (?) dall’altra il mondo di chi utilizza i servizi della Rete per comunicare, creare contatti e fare community. Mai come in questo frangente si è avuto sentore di una spaccatura così forte tra questi due mondi.
Ma riepiloghiamo la vicenda: dopo la cacciata da Amazon del sito Wikileaks e l’arresto avvenuto a Londra del suo fondatore, Julian Assange, in rete c’è stata una vera e propria mobilitazione a favore del sito, con donazioni tramite gli strumenti classici di PayPal, Visa e Mastercard. Queste ultime spinte dalle stesse ragion di stato seguite da Amazon hanno bloccato subito la possibilità di versare denaro a favore di WikiLeaks con il risultato che nel giro di breve tempo i loro siti sono stati hackerati. Non solo, in Rete si è presto organizzata una mobilitazione attraverso i due più grandi social network, Facebook e Twitter su cui ieri era comparsa la pagina di una fantomatica Operation Payback. Come racconta oggi il New York Times migliaia di persone hanno postato messaggi per dare indicazioni su quali siti attaccare e con quali modalità . Risultato: Facebook ha bannato la pagina del gruppo appellandosi a una violazione del termini di servizio d’uso (è illegale usare il sito per organizzare attacchi di hackeraggio) e la diaspora è continuata su Twitter che per tutto ieri ha consentito al gruppo Operation Payback di stare on line fino a quando, come racconta sempre il New York Times, non è stato distribuito un file contenente centinaia di numeri di carte di credito di utenti.
Twitter però ha lasciato attiva la pagina di WikiLeaks che rappresenta oggi l’unico canale di supporto al sito. Facebook da parte sua nega di aver ricevuto pressioni a chiudere la pagina web del gruppo da parte di organismi governativi (cosa che in passato era già accaduta in altri frangenti), mentre PayPal motiva la decisione di sospendere l’account come conseguenza di una violazione dei termini di uso del servizio. Ma sta di fatto che la vicenda di WikiLeaks si sta trasformando sempre più in un crociata per la libertà di espressione sul web, in cui gli strumenti sviluppati in questi anni sul web, sembrano ritorcersi contro alle stesse società che li hanno creati.