Non piace agli operatori dell’e commerce la nuova direttiva proposta dal Parlamento Europeo sui diritti dei consumatori, dove per la prima volta vengono sanciti principi comuni nella gestione dello shopping on line. Da tempo la Commissione Europea aveva tra le sue priorità quella di legiferare per la creazione di un mercato unico digitale, con regole condivise da tutti gli Stati membri e uniformità di condizioni di acquisto per i consumatori. Lo scorso 24 marzo il Parlamento Europeo ha così approvato la direttiva sui “Diritti dei Consumatori“, dove tra le altre cose si parla anche di e-commerce con una serie di misure che però, secondo gli operatori del settore, rischiano di portare un grosso freno al settore invece che una sua espansione.
Così le tre principali associazioni europee degli operatori dell’e-commerce: la francese Fevad (Fèdèration e-commerce et Vente à Distance) l’inglese IMRG (Interactive Media in Retail Group) e l’italiana NetComm (Consorzio del Commercio elettronico italiano) hanno sottoscritto un comunicato congiunto in cui chiedono ai rispettivi governi di non firmare la proposta del Parlamento Europeo, invitando quest’ultimo a consultare gli organi di rappresentanza del settore nei vari Stati membri prima di legiferare in materia.
Tre sono gli articoli della direttiva che secondo tali associazioni minano gravemente il futuro del settore: l’articolo 22a dove si parla di libertà di contratto e che prevede per i siti di e-commerce l’obbligo di consegna in tutta Europa. Un provvedimento che se dovesse passare, costringerebbe tutte le start up dell’e- commerce, anche le più piccole, ad adottare un sistema di pagamento in sette valute diverse, un sistema di traduzione in 25 lingue e contratti di spedizione per 27 Paesi. Oltre a rappresentare una sorta di limite alla libertà di un’impresa di poter decidere su quali mercati operare, tale articolo soffoca sul nascere le piccole iniziative on line imponendo loro fin dall’inizio una serie di obblighi troppo onerosi da sostenere.
Il secondo articolo (art.12) stabilisce tempi più lunghi per esercitare il diritto di recesso a tutto vantaggio dei consumatori che oggi hanno tra 7 e 10 giorni di tempo per cambiare idea e restituire il prodotto e che invece con la nuova proposta, si troverebbero a disporre di ben 14 giorni di tempo per notificare la volontà di recedere dall’acquisto e di altri 14 per effettuare il reso. Un tempo troppo lungo sostengono le associazioni degli operatori dell’e-commerce, che andrebbe a scapito solo dei venditori, incoraggiando gli utenti ad acquistare più merce di quanto farebbero in condizioni diverse di acquisto.
Non solo, sempre il tema di diritto di recesso la nuova direttiva stabilisce agli articoli 16 e 17 che il sito di e-commerce è tenuto al rimborso del consumatore entro 14 giorni e non più entro 30 com’è adesso, coprendo anche le spese di spedizione del reso per gli acquisti superiori ai 40 euro.
Insomma secondo NetComm e soci la direttiva porterebbe a un tale aggravio di costi per gli operatori da mettere in crisi l’esistenza stessa di molti di essi: oggi dice NetComm — i costi di trasporto dell’e-commerce a livello europeo valgono circa 5,7 miliardi di euro, con la nuova legislazione salirebbero a 15,6 miliardi. E’ chiaro che questi 10 miliardi di euro in più finirebbero per ricadere sui consumatori, con aumenti dei prezzi sugli articoli messi in vendita on line.
In questa levata di scudi contro la direttiva europea c’è però, a nostro avviso, anche molto corporativismo: chiunque abbia fatto acquisti on line sa come l’iter di restituzione della merce e relativo rimborso vada ben oltre i trenta giorni previsti e come tale “tempo indefinito” finisca per essere anche un deterrente all’acquisto on line.
Insomma non si può reclamare lo sviluppo di un settore, imponendo oneri solo a senso unico, senza garantire anche ai consumatori un set di regole certe e procedure più flessibili che facciano dell’esperienza di acquisto on line, un’abitudine d’uso e non un evento una tantum.