Questa volta l’accusa è di diffamazione nei confronti di un imprenditore il cui nome e cognome compariva nei suggerimenti delle ricerche su web, associato alle parole “truffa” e “truffatore”. Anche in questo caso il tribunale di Milano non ha ritenuto valida l’applicazione della direttiva sull’e-commerce (secondo cui un fornitore di web hosting non è responsabile dei contenuti che transitano sui suoi servizi) e ha emesso un’ordinanza che impone a Google di filtrare alcuni suggerimenti di ricerca, ritenuti lesivi e potenzialmente calunniosi.
Nel caso specifico i contenuti che Google avrebbe dovuto filtrare riguardavano i suggerimenti e le funzioni di autocompletamento che comparivano quando l’ utente digitava il nome e cognome di un imprenditore del settore finanziario. Il nome di quest’ultimo infatti veniva associato alle parole truffa e “truffatore”, una responsabilità che secondo il legale della parte offesa, l’avvocato Carlo Piana, non può non ricadere su Google in quanto si tratta di contenuti prodotti internamente dal motore di ricerca, che risultavano chiaramente offensivi nei riguardi della persona interessata. Per giunta Google ha già all’attivo il precedente dei filtri imposti alle funzioni di auto- completamento e suggerimento dei siti p2p che infrangono il copyright (tipo Bit Torrent) e che Google ha accettato di omettere.
Diversa l’interpretazione data dal motore di ricerca secondo cui i suggerimenti sono frutto di un algoritmo che calcola gli hits di ricerca più numerosi che compaiono associati a quel termine e quindi utilizzano criteri puramente statistici e automatici, senza un intervento umano. Nè è valso a Google appellarsi alla Direttiva europea 2001/31 sull’e-commerce in cui viene precisato che “un host provider non è considerato responsabile delle informazioni fornite solo ed esclusivamente se dimostra: a) di non essere stato effettivamente a conoscenza dell’illiceità delle informazioni fornite; b) di aver provveduto tempestivamente alla rimozione di tali informazioni non appena ne sia venuto a conoscenza.
Un’operazione quest’ultima che Google si sarebbe rifiutata di fare, lasciando appunto on line i suggerimenti incriminati.
Secondo L’avvocato Piana che ha difeso la parte offesa e che oggi sul suo blog riporta il caso , non si può parlare di una richiesta di censura, visto che le richieste erano limitate solo a due interventi eccezionali. L’avvocato commenta così l’ordinanza del tribunale milanese: il completamento automatico implica responsabilità e in questo caso il motore di ricerca lo è nel non aver tolto quei termini associati a una persona che ha un profilo pubblico e svolge un’attività professionale avvalendosi anche del supporto di Internet.
Per Google è il secondo stop che arriva dal Tribunale di Milano; il primo e più eclatante riguardava il caso YouTube-ViviDown e il video del ragazzo autistico lasciato on line diversi mesi prima della rimozione. E vien da chiedersi a questo punto se la direttiva europea sull’e-commerce sia sufficiente a regolar i rapporti tra le Internet company e i loro utenti. Lo stesso avvocato della controparte ammette che “tutti i casi sono diversi quindi non vi è alcuna garanzia che casi simili possano portare allo stesso risultato”. Sarà ma nel caso di Google finora è sempre finita allo stesso modo.